Il suo nome è Dominique Robert. Ha trascorso a lungo due mesi delle sue vacanze estive al Club quando era adolescente, negli anni '60 e '70, sia come GO Vela (a 15 anni, era il GO Vela più giovane del Club) sia come GO Suono.
Di recente, è tornato nel villaggio abbandonato di Caprera, in Sardegna, chiuso dal 2007, per documentare fotograficamente il luogo, in modalità "urbex", prima che tutto scompaia, poiché questa è, con ogni probabilità, l'intenzione del Parco Naturale all'interno del cui perimetro è compreso il villaggio. È solo una questione di soldi, ma senza dubbio accadrà non appena saranno reperiti i mezzi finanziari.
In seguito a questo commovente ritorno in un villaggio che conosceva così bene quasi cinquant'anni fa, ha scritto un racconto in due parti, ampiamente illustrato da fotografie del luogo.
Ecco la prima parte del suo resoconto.
Buona lettura.

Alcune foto in questo rapporto possono essere visualizzate in formato più grande. Per farlo, basta cliccare sull'immagine e si aprirà un pop-up!

Cinquant'anni dopo, cosa resta?

Il borgo di Caprera (Sardegna)

Creato alla fine degli anni Cinquanta sul concetto che aveva decretato il successo del Club agli albori (una location da sogno, un pacchetto che includeva tutto a volontà, dallo sport al cibo e alle bevande – tranne le consumazioni al bar – con, per mantenere la redditività, servizi alberghieri minimi), il Caprera era in funzione da circa quindici anni quando vi trascorsi la mia prima estate. Avevo 12 anni e mia madre mi era sembrata molto preoccupata quando mi aveva mostrato, su un giornale francese ottenuto chissà come (perché era anche quello il miracolo del Club, a quel tempo, farti esistere e divertire completamente fuori dal luogo e dal tempo), un articolo che raccontava l'invasione della Cecoslovacchia da parte dell'esercito russo.

Ciò significa che l'"era eroica" del Club era finita, e che si stava entrando in una fase di "prima maturità". Ciò non impediva di incontrare leader di villaggio come Avner Gruszow (Cefalù, 1966 o 67), un attivista sionista affiliato vent'anni prima alla "banda Stern" e autore di numerosi attentati anti-inglesi in quello che sarebbe diventato lo Stato di Israele, che era stato persino inviato a Londra nel 1948 per assassinare il Ministro degli Esteri (e ci era mancato per un soffio), che aveva raccontato tutto in " Un tempo per uccidere, un tempo per costruire" ma che, nonostante questo passato travagliato, era riuscito a guadagnarsi la fiducia di Padre Trigano che gli affidava villaggi, squadre di GO e migliaia di GM senza il minimo secondo fine. E poiché non si sbagliava spesso, la storia, anche in questo caso, gli diede ragione. Un certo Shalom Hassan, che sarebbe diventato una delle grandi figure del Club, era il responsabile sportivo di Cefalù.

Nell'estate del '68, a Caprera, Shalom era diventato capo villaggio, sua moglie Maya capo hostess, e il gentile gigante barbuto Czopp (pronunciato "Tchopp"), responsabile sportivo e specialista della pallavolo sui campi in terra battuta installati nel centro nevralgico del villaggio, sotto la pineta, tra il bar e il ristorante, dove non si poteva non fermarsi ad ammirare l'impresa sportiva, sia risalendo dalla spiaggia sia uscendo dalla capanna per andare a cena, dopo essersi lavati. Le collane da bar (molto più festose dei "quaderni da bar" dei villaggi invernali, con i loro mediocri biglietti di carta) avevano solo tre tipi di palline: bianca, caffellatte e nera, la più costosa. Quelle dorate sarebbero state create solo più tardi, con l'aiuto dell'inflazione.

Fu anche quell'estate che, come ho scritto in " Le mie estati al Club", un racconto pubblicato qualche anno fa su macase.net, mi assunsi per la prima volta le responsabilità di una "quasi-GO Voile", anche se inizialmente consistevano solo nel prendere le iscrizioni dai General Manager e formare equipaggi equilibrati per i 420, 445 e altri 485 che portavamo a riva dopo ogni regata sulle invasature installate sulla stretta banchina di cemento, quasi ai piedi dei primi box. Non era molto, anche se ero molto giovane per farlo, ma sollevava la "vera" GO Voile, ed ero orgoglioso come un barista!

Fu per caso che appresi, all'inizio del 2015, cioè quasi mezzo secolo dopo il mio primo soggiorno, che Caprera non era più gestita, il che non mi sorprese, poiché l'orientamento alberghiero adottato dal Club era difficilmente compatibile con la relativa austerità delle capanne, nessuna delle quali, ricordiamolo, era nemmeno progettata per essere chiusa a chiave: bisognava ricordarsi di portare i propri chiodi (con la trivella per piantarli) e il proprio lucchetto, se lo si desiderava... Ciò che mi sorprese di più fu che, nonostante fosse stato creato un parco naturale che comprendeva l'isola di Caprera, le autorità avevano lasciato il villaggio abbandonato così com'era, per mancanza di mezzi finanziari per distruggerlo e di mezzi legali per costringere il Club a farlo, essendo nel frattempo scaduto il suo contratto di locazione a lungo termine. Insomma, tra l'inerzia delle autorità pubbliche locali (le isole italiane sono molto regionalizzate) e la distanza da Roma, il villaggio stava lentamente sprofondando nell'oblio, marcendo sui suoi piedi, fino al giorno in cui, forse, una mano tesa sarebbe giunta a porre fine a questa lunga e silenziosa agonia, cancellandolo per sempre dalla mappa.

Fu allora che, in pochi minuti, nel profondo della mia lunga, nebbiosa e fredda sera d'inverno, nei pressi di Lione, si radicò in me una convinzione che, all'improvviso, divenne evidente: prima che il villaggio di Caprera scomparisse o fosse troppo sfigurato dal passare del tempo, dovevo tornare sul posto per documentare fotograficamente ciò che restava di questa parte del mio passato, di quelle settimane così ricche e meravigliose che vi avevo trascorso, così formative anche per me che ero allora alle soglie dell'adolescenza. Più di dieci anni dopo, come scrissi in Le mie estati, vi ero tornato, e anche lì si erano accumulati ricordi, che un ritorno sul luogo avrebbe permesso di esorcizzare.

Prepararsi per un viaggio, come tutti sanno, è già viaggiare, e grazie a Internet, oggi la preparazione può essere facilmente approfondita e dettagliata. Prima di partire, avevo quindi studiato attentamente le foto satellitari di Google Earth, così come quelle pubblicate dagli internauti che avevano visitato il villaggio prima della sua chiusura, o che si trovavano nella zona da allora. Grazie a queste immagini, così come ad alcuni contatti che sono riuscito a stabilire via email, ho acquisito l'unica certezza che contava per me: non sarebbe stato difficile accedere fisicamente al villaggio. Ad esempio, dalla spiaggia, solo una fragile barriera di plastica alta poco più di un metro proteggeva l'accesso. Se necessario, ho portato con me il mio fidato Leatherman, che avrei saputo usare, nel peggiore dei casi, per commettere la violazione della proprietà privata che ero ben disposto ad assumermi nell'interesse della documentazione fotografica e del dovere della memoria! Non pensavo di avere più ragione... ma non corriamo troppo.

Così sono arrivato in Sardegna, e più precisamente a La Maddalena, in una normalissima sera infrasettimanale (e scelta come tale) di fine aprile 2015. Troppo presto nella stagione perché i primi vacanzieri fossero già lì e si interessassero alle mie attività, ma ancora abbastanza tardi da avere quasi la garanzia del tipico clima sardo: sole, bella luce, non troppo caldo. Scommetto! Quando sono atterrato ad Alghero, è stata la pioggia ad accogliermi, anche se ero appena partito da Lione dove c'era il sole!

Lo sanno bene i giardinieri bretoni: non c'è niente di meglio dell'alternanza di rovesci (anche se un po' prolungati) e di momenti sereni per creare una bella luce, e quella sera, sul traghetto che mi portava da Palau a La Maddalena, ne ho approfittato.

Traghetto Palau – La Maddalena

Un nome predestinato!

Cieli granulosi sullo Stretto di Bonifacio

Cielo caotico sopra La Maddalena

La mattina dopo, la pioggia continuava a cadere, insistente, ostinata. A giudicare dall'aspetto, era caduta tutta la notte, e mi chiedevo se la strada sterrata che portava alla piccola spiaggia del Club, Cala Garibaldi, e che ora era aperta a tutti (in Italia, l'auto è regina), non si fosse trasformata in un pantano. Per far fronte a questo tipo di eventualità, avevo provato a noleggiare un fuoristrada, ma era stato tempo perso; avevo ottenuto solo una di quelle "cross-over" molto di moda che non sono altro che berline da tutti i giorni leggermente rialzate. In ogni caso, in tarda mattinata, la pioggia sembrava diminuire di intensità, o addirittura, a tratti, cessare del tutto. Così sono partito.

Caprera e La Maddalena, due isole che quasi si toccano, sono sempre state collegate da un ponte. Quello vecchissimo, strettissimo e arrugginito che conoscevo era stato recentemente sostituito da una moderna struttura curva, in un certo senso nello stile lusinghiero di Calatrava. Passai senza fermarmi; i miei ricordi mi attendevano più avanti.

A forza di stancarmi la vista su Google Earth, avevo memorizzato esattamente il percorso da seguire per arrivare davanti a quella che era stata la "porta" del villaggio (qualche raro GM, soprattutto italiano, ci arrivava in auto), prima di immettermi sul sentiero sabbioso di Cala Garibaldi. Presto, arrivai davanti a un muretto e a un piccolo cancello chiuso. La capanna che doveva ospitare il guardiano/custode stava morendo silenziosamente, una bandiera italiana sbrindellata sventolava al vento. Era molto grigio, a tratti ricominciava a piovere.

Il cancello chiuso del villaggio abbandonato...

Tra il fogliame, la capanna del custode e un gagliardetto italiano lacero

La capanna del custode

Ho aspettato un po' che smettesse di piovere, divorando un panino al salame che avevo preparato quella mattina al buffet della mia colazione, poi ho deciso di dare un'occhiata più da vicino. Il muretto era incredibilmente facile da scalare, in realtà era poco più che questione di scavalcarlo, e avvicinarsi al villaggio "da dietro" poteva contribuire a una maggiore discrezione. L'auto era parcheggiata al riparo dalla vegetazione, fuori dalla vista della strada. Certo, arrivando fino al cancello, non si poteva non vederla, ma qualsiasi altro escursionista avrebbe potuto lasciarla lì senza entrare nel vecchio villaggio del Club... Un cartello ben in vista proclamava che il posto era videosorvegliato, ho ispezionato attentamente i dintorni in cerca di una telecamera e non ne ho trovata nessuna: era uno spettacolo, e ci sarebbe voluto ben altro per dissuadermi. Ho "superato il muro" senza difficoltà; ero lì.

Ciò che mi ha sorpreso di più all'inizio è stata la vegetazione. Tranne sotto la pineta, dove sapevo che non cresceva molto attraverso il fitto tappeto di aghi di pino, mi aspettavo di dover affrontare, qua e là, una vera e propria giungla: in sette anni di abbandono, cresce in modo strano, il giardino ne sa qualcosa ogni primavera! Ma qui, l'erba è rimasta perfettamente gestibile, quasi disciplinata. Ho attribuito questo alla siccità estiva, che deve aver rapidamente rovinato gli sforzi di crescita iniziati in primavera. L'altra cosa sorprendente è stata la vegetazione diffusa: mi sono improvvisamente reso conto di aver conosciuto Caprera solo in piena estate, quando i giardinieri non risparmiavano sforzi (e l'acqua potabile portata dalla Sardegna in cisterna fino al piccolo pontile di cemento che delimitava il terreno del Club) per mantenere vivi pochi metri quadrati di prato e fiori al ristorante o intorno al bar; ovunque altrove era di un giallo uniforme. E qui, naturalmente, all'inizio della primavera, era tutto verde, la nuova vegetazione che cresceva speranzosa sui resti marci di quella degli anni passati.

Ho iniziato a camminare lentamente tra le capanne, in un silenzio da necropoli, appena disturbato dal raro canto di un uccello. Qualcuno mi aveva detto di stare attento ai cinghiali, e del resto, potreste aver notato il cartello molto ufficiale che ne annuncia la presenza nella prima foto di questo racconto, dove si specifica che non bisogna dar loro da mangiare, il che suggerisce a priori che siano piuttosto amichevoli... Tuttavia, so che questi animali possono essere feroci, soprattutto quando hanno i cuccioli (il che era certamente il caso in quel periodo dell'anno), quindi ho tenuto d'occhio il terreno e più volte sono andato a cercare gli avanzi, senza vedere nemmeno una coda di cinghiale. E a parte me, ovviamente, non c'era anima viva in giro.

Le capanne erano molto simili a quelle che avevo conosciuto e in cui avevo vissuto. Non so quanto duri il materiale di cui sono fatte, ma la maggior parte di esse era ancora in ottime condizioni e apparentemente molto solida, a eccezione di alcuni tetti un po' scompigliati dal vento, sempre violento nelle Bocche di Bonifacio. La maggior parte delle targhette erano più recenti della "mia", ma ne ho trovate con emozione alcune la cui grafica era senza dubbio quella usata in passato. Chissà, inoltre, se alcune di queste capanne fossero proprio quelle che avevo conosciuto cinquant'anni prima, con le loro pareti di paglia, apparentemente fragili, che reggevano ancora perfettamente nonostante gli inverni accumulati?

Una targa a scatola "recente", con lettere in corsivo

 

Caso “vecchio”: la sua placca, un tempo blu, ha perso il suo colore e le sue lettere sono dritte

I cambiamenti, tuttavia, furono numerosi e sorprendenti per un "vecchio" come me. Appena varcata la soglia, il primo shock: mentre le "mie" capanne avevano solo un chiavistello scorrevole in ottone, o persino, a volte, un semplice gancio nichelato infilato in un golfare curvo, ecco che tutte queste capanne "moderne" erano dotate di un robusto chiavistello, pensato per essere chiuso con un lucchetto... e inoltre, la maggior parte di esse lo era! Fortunatamente, alcune erano aperte, risparmiandomi di dover forzare la porta... e poi, il secondo shock: sul pavimento, non si trattava di un semplice massetto di cemento (o addirittura, come sapevo, di terra battuta!), ma di un bel pavimento piastrellato ben fatto, la cui durevolezza posso testimoniare, anche dopo sette anni di abbandono!

Quasi tutte le scatole sono quindi chiuse con un lucchetto.

L'interno di una capanna abbandonata da otto anni: sporco, ma perfettamente asciutto. Un armadio di lusso (!) con una robusta cassetta.

Alzando lo sguardo, notai che anche l'arredamento era cambiato molto: certo, i letti erano rimasti quelli di sempre, cioè essenziali, ma ora c'erano due armadi per capanna (mentre prima solo i vili accumulatori – o quelli con conoscenze – ostentavano un simile lusso), e per di più, ognuno di essi era ufficialmente dotato di una cassaforte, anch'essa pronta per essere chiusa con un lucchetto, e nella quale il Club raccomandava, con grande autorità, di non lasciare più di 250 euro in contanti, e 2500 in gioielli e oggetti di valore vari...! Rimasi sbalordito. C'era forse bisogno di soldi al Club? Non veniva tutto, come prima, depositato nella cassaforte del villaggio all'arrivo? Quei grandi livellatori di classe sociale, la sbarra al colletto e la paura del furto (la natura umana rimane quella che è, ahimè! anche al Club) non c'erano più a contribuire a creare la meravigliosa atmosfera che avevamo conosciuto e tanto apprezzato? Si poteva ormai lasciare il proprio orologio Cartier nella "cassaforte" della propria capanna per mostrarlo con orgoglio agli altri, che lo desideravano ardentemente la sera al bar, sperando di compensare le mediocri prestazioni di tiro con l'arco, pallanuoto o bocce di prima mattina? Il Club era cambiato così tanto?

Sembrava proprio di sì: in ogni scatola, pensavamo di dover esporre una mappa plastificata del villaggio (ne ho tenuta una come souvenir, era caduta a terra), mentre prima ce la cavavamo benissimo anche senza (quando non sapevamo, chiedevamo, creava legami!). L'odioso principio di precauzione, che ci infantilizza e ci rende tutti irresponsabili, aveva colpito anche lì, e poi, non eravamo arrivati ​​al punto di dotare ogni scatola di una plafoniera elettrica? Perché non una jacuzzi e un dock per iPhone, già che c'eravamo?

La mappa del villaggio, nel caso vi perdeste...

Lasciai questa prima capanna perplesso. Ciò che avevo visto lì mi diceva molto sul modo in cui il Club, il suo spirito, la sua atmosfera, si erano evoluti. Tutti questi nuovi sviluppi andavano indubbiamente nella direzione di un certo "progresso". Non si poteva negare l'interesse per la luce elettrica, che risparmiava ai più lungimiranti di dover portare con sé la famosa lampada blu da campeggio a gas, molto efficace e poco appariscente (del resto, qualsiasi GM un po' attrezzato arrivava anche con le sue sei strisce di zanzariera pretagliate delle giuste dimensioni, il suo martelletto e i suoi chiodi, per proteggere le aperture della sua capanna nel caso in cui non fosse già stato fatto), ma è innegabile che illuminare con una fiamma libera, anche molto protetta, e che emanava calore, non fosse l'ideale in una capanna per sua natura altamente infiammabile (tetto compreso!), situata in mezzo ad altre e in un ambiente anch'esso molto sensibile al fuoco.

Strana capanna “familiare”, l’unica del villaggio

Vestibolo d'ingresso alla capanna della famiglia: una capanna a destra, una a sinistra

Proseguendo il mio cammino, esplorando da destra a sinistra, mi sono imbattuto in un primo "blocco sanitario", come chiamavamo, all'epoca, questi blocchi comuni che riunivano lavandini, docce, servizi igienici, lavatoi, insomma gli unici punti d'acqua (sempre potabile, anche se a volte non aveva un gran sapore) del villaggio, all'esterno del ristorante, del bar e delle aree di attività. Mentre nelle capanne reti, materassi e armadi erano stati ammassati al centro della capanna (per non favorire la nidificazione degli animaletti?), ma lasciati lì, nei blocchi sanitari era stato portato via tutto ciò che poteva essere ragionevolmente smontato: rubinetti, scarichi, tubi, sifoni, tutto era sparito, senza apparenti atti vandalici, senza brutalità, senza danni, come se lo smantellamento fosse stato deliberatamente eseguito con calma e metodo dopo l'orario di chiusura. Tuttavia, i tubi dovevano essere tutti in PVC e i rubinetti in lega cromata, niente rame, ma forse aveva comunque un valore di cui non ero a conoscenza e che il Club aveva voluto realizzare prima di lasciare i locali...

Questo primo contatto con muri "duri" fu l'occasione per confermare, come mi era sembrato di vedere prima della mia partenza in altre foto, che tutto ciò che conoscevo dipinto di un sobrio bianco mediterraneo era stato poi ricoperto da una specie di tuorlo d'uovo piuttosto sgradevole, invecchiato male. La capanna del capo villaggio, in cui avevo avuto l'onore di entrare un paio di volte, aveva subito la stessa intonacatura indigesta, che si stava staccando a chiazze intere, rivelando il bianco sottostante, apparentemente di qualità molto migliore.

Un altro servizio igienico

In quel momento entrai nella pineta e la perplessità mi assalì di nuovo: non c'erano capanne sotto la pineta! Si estendevano lateralmente, a più livelli, come ricordavo, fino dietro il bancone e su tutto il piccolo promontorio dietro la capanna a vela, ma sotto la pineta stessa, niente! La prospettiva era molto bella, ma non corrispondeva affatto ai miei ricordi.

Prospettiva sotto la pineta

Quindi, o le capanne precedentemente piantate sotto la pineta erano state rimosse (probabilmente per motivi di sicurezza antincendio), oppure la pineta un tempo si estendeva in tutta o in parte nella zona sud del villaggio, tra gli uffici e il parcheggio, per semplificare, e per qualche motivo non esisteva più, ed era stata sostituita da specie diverse. Forse un GM che leggerà questa storia potrà fornirmi la spiegazione di questo mistero...

Casa del capo villaggio

Non lontano dalla capanna del capo villaggio (ma più vicino di quanto ricordassi), ho trovato l'edificio di quelli che un tempo venivano chiamati "Uffici": Direzione, Cassiere, Traffico, Pianificazione, ecc.

Gli uffici

Una scatola speciale, accanto alle scrivanie...
A cosa serviva? Alle hostess?

Avvicinandomi, ho avuto un momento di emozione quando ho trovato, esattamente nello stesso posto, il tavolino di pietra e i quattro piccoli sedili quadrati che lo circondavano, dove mi ero così spesso seduto a scrivere. A parte la calce giallastra, non era cambiato nulla; per un attimo, avevo appena fatto un salto indietro nel tempo di oltre due volte ( Vent'anni dopo al contrario), che mi ha riportato con incredibile acutezza ai miei ricordi di giovane adolescente: l'odore era lo stesso, gli oggetti erano gli stessi, fino alle schegge di mosaico screpolate, e persino i tronchi degli alberi non sembravano essere cambiati, anche se dovevano essere invecchiati, proprio come me, di mezzo secolo nel frattempo!

Esattamente come lo ricordo... nulla è cambiato in cinquant'anni (tranne il colore)

Forse un pino marittimo si arrotonda meno rapidamente attorno alla vita rispetto a un cosiddetto homo sapiens?

Dopo questo shock emotivo e temporale, ho visitato gli Uffici. A differenza delle baracche che, tutto sommato, mi erano sembrate in ottime condizioni, ancora sane e molto asciutte nonostante la pioggia caduta dal giorno prima, gli edifici permanenti degli Uffici mi hanno sorpreso per il loro avanzato stato di degrado. Alcuni di essi erano protetti da nastro adesivo e di pericolo di crollo . E ovunque, porte e finestre erano accuratamente chiuse. Da esploratore urbano rispettoso del suo codice etico, non mi sono introdotto e ho deciso che i segreti che potevano essere nascosti dietro quelle porte sarebbero rimasti inviolati.

 

Porta dell'infermeria

Un telefono pubblico molto incongruo
in questa silenziosa solitudine

 

Continuando la mia tranquilla passeggiata sotto la pineta, e ormai completamente ignaro di quei cinghiali che all'inizio mi avevano un po' preoccupato e che sapevo preferivano il fitto sottobosco ai terreni aperti, mi diressi verso un altro luogo misterioso del villaggio, dove ero stato ammesso solo una volta e che mi preparavo con gioia ad avere tutto per me: il Matériel.

Non so come sia la situazione nei villaggi oggi, ma nei villaggi di capanne del secolo scorso c'erano sempre cose da riparare, piccoli lavori di bricolage da fare, un pezzo da sostituire a un compressore subacqueo, lana di vetro per riparare lo scafo di un canotto che un altro aveva ammaccato gravemente, ecc. Tutto questo, e molto di più, si poteva trovare in questa caverna di Ali Babà che era l'Attrezzatura. Avevano tutto (o fingevano di averlo) e sapevano fare tutto (idem): attrezzi, materiali, materie prime, sofisticati impianti meccanici ed elettrici, falegnameria, idraulica, intonacatura, tutti i mestieri di cui il villaggio poteva aver bisogno per funzionare erano lì rappresentati.

Naturalmente, ai GM non era permesso entrare e perfino i GO si rivolgevano a loro solo con una sorta di rispetto che loro cercavano di nascondere dietro un'aria vanagloriosa.

Io stesso vi entrai con cautela, non per rispetto della tradizione, ma perché pensavo che se c'era ancora un guardiano nel villaggio, era lì che si trovava. E da un guardiano sardo, nevrastenico e disoccupato, ci si poteva aspettare di tutto. Per quanto non avessi creduto alla favola della videosorveglianza, il concetto del vecchio sardo, investito di una missione quasi mistica di guardiano di questo tempio abbandonato, e per di più cacciatore come tutti i vecchi sardi (e quindi munito di fucile), mi rimaneva presente nella mente.

Ma non era destino, e il Matériel si rivelò deserto quanto il resto del villaggio. Questi luoghi, certamente piuttosto sporchi e per di più oggi privi, a eccezione di una vecchia lavatrice industriale arrugginita, di tutti quei misteriosi macchinari, pentole, sacchetti e altri utensili complessi (almeno ai miei occhi di adolescente) che ne avevano costruito il mito, mi delusero parecchio. Notai solo la presenza di due piccoli scooter e di un golf cart elettrico, tutti arrugginiti e fatiscenti oltre ogni speranza.

Accesso alle attrezzature dall'esterno del villaggio.
Nota il riferimento ai "soci con braccialetto": quindi negli ultimi anni siamo stati dotati di chip al Club?

 

Cortile dei Materiali

Alloggiamento del materiale

Interno di una di queste abitazioni

Più che il sedere della ragazza, ciò che è interessante qui
è questa collezione di distintivi che probabilmente indossavano i GO.

Lavatrice per lingerie

Continuando la discesa verso il mare, che ormai avevo visto scintillare per un po' tra i pini, raggiunsi il ristorante.

Continuiamo la discesa verso il mare, che vediamo oltre i pini...

Il ristorante: in passato questo spazio era pieno di tavoli e panche

Pavimentazione originale del ristorante

 

Le cucine, lato ristorante: dietro questi banconi c'erano le griglie, i barbecue.

Quanto mi sembrava piccola, priva di tavoli e panche, quando mi era sembrata così vasta quando avevo dovuto attraversarla tra le centinaia di commensali! Quanto era silenziosa, triste, spenta, per usare un eufemismo, quando l'avevo conosciuta così vivace, ronzante, piena di profumi e sapori...! Eppure non era cambiata per niente: sotto il fitto tappeto di aghi di pino, potevo vedere il pavimento di lastre che riconoscevo, lo stesso su cui avevo spesso camminato a piedi nudi, e in un angolo, trovavo i frammenti mobili di un piatto e di un piatto rotti, abbandonati da anni, e i cui colori, a loro volta, mi parlavano al di là dei decenni trascorsi... Quanti ricordi, a lungo sepolti, ma improvvisamente rianimati dalla contemplazione di pochi poveri frammenti di porcellana scadente!

Ricordi…

Rimasi lì, con le braccia penzoloni, incapace di staccarmi da quel povero tesoro, chiedendomi se dovessi prima andare al bar o piuttosto alla spiaggia vicina, che ora potevo vedere chiaramente non essere più bloccata dalla recinzione arancione, di cui era scomparsa ogni traccia... Se l'avessi saputo, sarei venuto direttamente da quella parte...

I vecchi campi da pallavolo, sullo sfondo il bar e la pista da ballo e, sulla destra, il mare, senza barriere...

Ero a questo punto delle mie riflessioni quando vidi una piccola Fiat nera spuntare dalle viscere del paese, a una buona velocità, evidentemente guidata da qualcuno che conosceva la zona. Inizialmente pensai che si trattasse di un abitante del posto in visita, e mi chiesi come avesse potuto evitare il sentiero dissestato di Cala Garibaldi. Poi, quando scese dall'auto, facendo grandi gesti espressivi con le braccia, e potei leggere la scritta "VIGILPOL" sulla sua camicia nera, mi resi conto di essere stato appena sorpreso con la mano nel barattolo di marmellata.

Avremmo dovuto negoziare... alla maniera italiana.

Spiaggia di Cala Garibaldi. Se guardate attentamente,
l'auto della guardia giurata sulla sinistra, sotto i pini

FINE DELLA PRIMA PARTE

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2 commenti

  1. Ciao; ho conosciuto il club nel 1982... tanti bei ricordi di questi quasi 2 mesi. L'atmosfera era superba e la sera il bar ci riuniva, alcune mattine un mal di testa... Lagrappa era lì. Abbiamo ballato molto e partecipato ai diversi spettacoli, sempre ben guidati dai GO...
    🎶💕🎶👏👏👏
    I palchi ci andavano bene e i GO erano fantastici.
    Peccato che tutto stia andando un po' a rotoli.
    La Maddalena è molto accogliente, ho apprezzato questa ospitalità.
    In bocca al lupo per le vostre varie azioni e non sono l'unica a provare un po' di nostalgia.
    La tua, Nina (Breton) 👏👏👏

  2. Ciao, ho fatto uno stage di 3 mesi come tecnico luci presso la GO negli anni '80/'82. Non ricordo molto, c'era un'atmosfera fantastica, il capo villaggio era Machepro, una donna molto preparata e amichevole.
    Ho continuato per altre 2 stagioni a Wenguen, in montagna, per poi concludere alle restanques vicino a St Tropez. Ho tanti bei ricordi...

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